India Modi

2 luglio 2020, Huffington Post,

La svolta impressa da Xi-Jimping in Cina negli ultimi anni ha avuto un forte impatto “interno”: ulteriore riduzione delle libertà e i diritti all’interno del paese, controllo capillare e diffuso della società (dal “Great FireWall” per ingabbiare la rete, fino al sistema di crediti sociali classificare i propri cittadini per grado di affidabilità nei confronti de regime), ma soprattutto uno “esterno”, con la costruzione di una “proiezione globale” in grado di competere per la prima volta direttamente con il modello politico ed economico delle democrazie liberali.

La nuova proiezione globale cinese è ben percepita nei suoi confini più prossimi (la nuova legge sulla sicurezza nazionale a Hong Kong, l’aumento dell’assertività nei confronti di Taiwan, l’occupazione militare del mar Cinese Meridionale), ed ora raggiunge anche Europa e Africa con il progetto strategico della nuova Via della Seta.

L’illusione del mondo occidentale di avere incluso la Cina in un sistema economico globale, confinandola al ruolo di “fabbrica del mondo” nella quale de-localizzare con facilità le proprie produzioni a costi ridotti, si è rivelata per molti versi ingenua.

La Cina di Xi, oramai seconda economia del pianeta, ha in pochi anni cambiato le regole della geopolitica mondiale non soltanto affermandosi come un nuovo ed importante attore, ma introducendo anche una fortissima dinamica competitiva, proponendo un modello alternativo alle democrazie liberali dell’occidente.

Il progetto del “capitalismo senza democrazia” di stampo orientale corre dunque lungo i binari e le rotte marittime della nuova Via della Seta fra Europa, Asia e Africa e nonostante la narrativa cinese l’abbia descritta come un regalo della “saggezza cinese allo sviluppo mondialein realtà si tratta di un disegno geopolitico con obiettivi precisi:  ampliare il proprio “spazio economico” verso l’Africa e l’Europa; creare rapporti bilaterali rafforzati con i paesi maggiormente “delusi” dall’occidente; incrementare il “soft power” di Pechino nel mondo.

Dopo una lunga stagione di eccesso di realpolitik e di “appeasement”, l’occidente e le democrazie asiatiche hanno iniziato a comprendere la portata della sfida e iniziato a costruire strategie innovative per non rendere ineluttabile il nuovo “secolo cinese”.

Il caso della nuova politica dell’India nell’Oceano Indiano e in Africa è forse uno dei più interessanti.

Sono passati pochi giorni dagli scontri fra gli eserciti indiano e cinese nella regione del Ladakh in Himalaya, lungo quelle parti del confine ancora non definite fra i due paesi, ma il vero confronto fra la democrazia indiana e l’autocrazia cinese si sta svolgendo altrove: lungo le rotte marittime dell’Oceano Indiano e nel continente africano.

L’India del ventunesimo secolo si trova a dover colmare in Africa un significativo ritardo nei confronti della Cina che è oggi diventata il principale attore politico ed economico in molti paesi del continente.

L’interesse strategico dell’India in Africa corre sostanzialmente lungo due binari: approvvigionamento di energia e risorse e sicurezza, il tutto all’interno della cornice del “contenimento” dell’espansione globale del colosso cinese.

E per raggiungere questo obiettivo il Primo Ministro Narendra Modi ha deciso di aumentare nel continente africano in modo significativo la propria presenza politica e diplomatica: alla fine del 2018 erano 29 le ambasciate indiane in Africa che diventeranno 47 entro il 2021, con un un incremento in soli tre anni del 60%.

I tre summit India/Africa fin qui realizzati (2008, 2011, 2015) e soprattutto quello in preparazione nel 2021, sono la cornice nella quale si sviluppa la nuova priorità “africana” della potenza indiana.

Sul fronte economico, il trend di crescita dell’interscambio commerciale è stato significativo: 5,3 miliardi di dollari nel 2001, 70 miliardi nel 2013 con l’obiettivo fissato a 500miliardi di dollari entro il 2021. La EXIM Bank indiana (Export-Import Bank) ha lanciato l’innovativo “Focus Africa Programme” per sostenere i flussi commerciali fra India e Africa, sostanzialmente connotati da uno scambio fra energia e risorse dal lato africano e servizi dall’India. La Confindustria indiana (CII) ha già promosso nove meeting fra grandi aziende africane e indiane e i più importanti gruppi indiani (Tata, Arcelor Mittal, Airtel, Vedanta Resources) sono sempre più presenti nel continente.

Nell’ultimo summit Africa/India è stata poi lanciata la International Solar Alliance, con sede a Delhi, per promuovere la diffusione di progetti di energia rinnovabile nel continente, guidati da investitori indiani.

Tutti gli investimenti di Nuova Delhi nel continente nero transitano dall’isola/stato “indiana” di Mauritius, diventato negli anni un hub finanziario con la stessa funzione svolta per decenni da Singapore e Hong Kong in Asia.

Infine, il progetto più ambiziosi di Narendra Modi: l’Asia-Africa Growth Corridor (AAGC), la risposta indiana alla Nuova Via della Seta per promuovere progetti infrastrutturali in Africa e nell’Oceano Indiano. Il progetto è implementato congiuntamente con il Giappone, vi hanno già aderito oltre 20 paesi africani e rappresenta la più significativa azione di contenimento dell’espansione cinese in Africa. E non è un caso che ha lanciare la sfida siano state insieme le due più importanti democrazie asiatiche: l’India e il Giappone.

L’agenda dell’India sul tema della Sicurezza è poi altrettanto ambiziosa: contenimento della presenza militare cinese nell’Oceano Indiano; lotta al terrorismo, contrasto alla pirateria e messa in sicurezza delle rotte di approvvigionamento energetico; cooperazione militare bilaterale.

L’Oceano indiano e l’Africa orientale rappresentano per l’India l’arteria chiave della propria economia: da qui l’impegno incessante della marina e delle forze armate indiane nel pattugliamento dei mari, nelle azioni per sconfiggere la pirateria, nonché l’avvio di programmi di formazione militare con gli eserciti di Botswana, Ethiopia, Nigeria, Zambia e Sudafrica.

L’apertura della prima base militare cinese in Africa a Gibuti e i significativi investimenti in diverse infrastrutture portuali nell’Africa orientale (con il rischio di un “dual use” commerciale e militare), sono stati un ulteriore campanello d’allarme per Nuova Delhi.

In tutta risposta l’India ha concluso fra i 2018 e il 2020 quattro accordi strategici nel settore della sicurezza. Il primo con la Francia che permetterà alla marina indiana di utilizzare le strutture logistiche francesi in Africa e Oceano Indiano; il secondo con Mauritius relativo alla formazione dell’esercito e con ingenti investimenti per l’espansione delle sue infrastrutture portuali e militari; il terzo con l’Australia che prevede una cooperazione militare a tutto campo con l’utilizzo di entrambi gli eserciti dei rispettivi porti e basi militari. Infine, l’accordo bilaterale siglato con la Repubblica delle Seychelles che permetterà all’India di costruire sull’isola di Assumption la sua prima base militare al di fuori della madre patria.

La storia si è rimessa in moto e le democrazie asiatiche stanno dimostrando una vivacità ed un protagonismo inaspettato in grado di colmare i vuoti creati da un America ed un Europa troppo spesso incapaci di agire.

Il Governo Conte dovrebbe prendere buona nota e comprendere che fra Asia, Europa e Africa non esiste solo la Via della Seta di Pechino.

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